10 Maggio 2021
Abusi edilizi: le sanatorie straordinarie non spettano alle Regioni
La Corte Costituzionale, con sentenza 21/04/2021, n. 77 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della Legge Regionale del Veneto 23/12/2019, n. 50, chiarendo che in materia di sanatorie edilizie, spettano alla legislazione statale le scelte di principio, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario, quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria e infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili, ricadendo tali aspetti nella materia del governo del territorio. Quindi non è di competenza delle Regioni introdurre la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, derogare ai limiti di volumetria e inserire una sanatoria degli abusi edilizi senza il rispetto del requisito della doppia conformità.
Nel caso in oggetto, l’art. 2 della L.R. Veneto 50/2019, n. 50 consente la regolarizzazione amministrativa delle opere edilizie provviste di titolo edilizio abilitativo o di certificato di abitabilità od agibilità» ed «eseguite in parziale difformità dai titoli edilizi rilasciati o dai progetti approvati prima dell’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977, n. 10» mediante presentazione di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e previo pagamento di sanzione pecuniaria delle opere edilizie provviste di titolo edilizio abilitativo o di certificato di abitabilità od agibilità, eseguite in parziale difformità dai titoli edilizi rilasciati o dai progetti approvati prima dell’entrata in vigore della L. 28/01/1977, n. 10. In particolare, le norme impugnate introdurrebbero, al di fuori di quanto previsto dalla normativa nazionale, ipotesi nelle quali è possibile sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria; inoltre, nel consentire, all’art. 2, la regolarizzazione di variazioni che comportino «un aumento fino a un quinto del volume dell’edificio e comunque in misura non superiore a 90 metri cubi», ovvero «un aumento fino a un quinto della superficie dell’edificio e comunque in misura non superiore a 30 metri quadrati», esse derogherebbero ai limiti di tolleranza fissati dall’art. 34, comma 2-ter, t.u. edilizia; infine, introdurrebbero una sanatoria degli abusi edilizi senza il rispetto del requisito della “doppia conformità” di cui agli artt. 36 e 37 t.u. edilizia.
Secondo il ricorrente, dunque, il meccanismo di regolarizzazione degli abusi edilizi consentito dalle norme impugnate introduce una nuova ipotesi di sanatoria, il cui perimetro applicativo è più ampio di quello stabilito dalle norme statali di principio; secondo la Regione Veneto, invece, non si produrrebbe alcun effetto sanante degli abusi, poiché la regolarizzazione disposta varrebbe unicamente a determinare una “fiscalizzazione dell’illecito”, mediante la sostituzione dell’obbligo di ripristino con una sanzione pecuniaria.
Il pagamento delle sanzioni pecuniarie, per la Cassazione, tuttavia non è di per sé sufficiente a consentire la «regolarizzazione amministrativa» delle opere edilizie eseguite in parziale difformità dal titolo, occorrendo al riguardo anche la presentazione di una SCIA. L’effetto sostanziale delle norme impugnate, pertanto, non è circoscritto all’esclusione della sanzione demolitoria (sostituita da quella pecuniaria), ma si estende al rilascio di un diverso titolo abilitativo. La combinazione di queste due conseguenze produce per tutti gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti di una sanatoria straordinaria, che si differenzia, in quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dall’art. 36 t.u. edilizia. Le norme impugnate, infatti, non solo consentono il mantenimento dell’immobile abusivo nella disponibilità del soggetto interessato, senza alcun obbligo di ripristino dello status quo ante, ma prevedono, in relazione allo stesso, che il titolo originario, stabilito dal legislatore statale, sia sostituito dal nuovo titolo, conseguente alla presentazione della SCIA.
In tema di condono edilizio la giurisprudenza ha più volte ribadito che spettano alla legislazione statale le scelte di principio, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario, quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria e infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili. Solo nel rispetto di tali scelte di principio, competono poi alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale.
Inoltre, spiega la Cassazione, costituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta “doppia conformità” di cui al menzionato art. 36, D.P.R. 380/2001, in base al quale il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. Si tratta, infatti, di un adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.
Anche nei casi in cui l’attività sia subordinata alla presentazione di SCIA, la normativa statale di principio impone il duplice accertamento di conformità, e ciò sia per l’ipotesi in cui la segnalazione riguardi opere già compiute dal soggetto interessato, sia per l’ipotesi di opere in corso di esecuzione (art. 37, commi 4 e 5, D.P.R. 380/2001): anche in relazione a tutti gli interventi oggetto di SCIA in sanatoria, pertanto, dev’essere attestata la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia al momento della realizzazione e a quello della successiva segnalazione.
Infine, la presentazione della SCIA prevista dalla legge regionale del Veneto, secondo la Corte, non si allinea con tale principio: con essa il soggetto interessato attesterebbe la conformità dell’opera alla normativa regionale sopravvenuta, in vigore al momento della segnalazione, ma non ne attesta la conformità alla disciplina vigente al momento della realizzazione dell’intervento, la difformità dalla quale costituisce, anzi, il presupposto per l’avvio della procedura di regolarizzazione.